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Writer's pictureLuigi Gioia

Il desiderio più profondo



"Ogni visione della santità che vi veda un rinnegamento della nostra umanità, una negazione del desiderio di felicità è contraria al Vangelo".

Ap 7,2-4.9-14; Sal 24; 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12a


La maniera migliore per celebrare la solennità di tutti i santi è quella di approfittarne per purificare la nostra visione della santità alla luce del vangelo liberandola da tutti gli equivoci con i quali continuiamo a fraintenderla. Ancora oggi nel corso di quelli che chiamiamo ‘processi di canonizzazione’ parliamo di ‘eroicità delle virtù’. Le storie dei santi (le ‘agiografie’) continuano ad essere edulcorate e improbabili, come lo riconosce la saggezza spirituale che raccomanda spesso –informalmente- di ammirare i santi ma di non cercare di imitarli! E soprattutto continuiamo a confondere la santità con la perfezione, finendo di fatto con il vedervi qualcosa di accessibile solo ad una specie di aristocrazia spirituale e non effettivamente offerto a tutti i battezzati.

E’ noto il fatto che, nel Nuovo Testamento, l’appellazione ‘santi’ si riferisse a tutti i battezzati. Quando poi leggiamo Giovanni, ciò in cui fa consistere la pienezza della vita cristiana non è nell’eroicità delle virtù, ma nel grande amore che ci ha dato il Padre, in virtù del quale siamo chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente (1Gv 3,1). Ciò che ci fa crescere evangelicamente, ci santifica, ci purifica è la speranza che Giovanni descrive così: Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è (1Gv 3,2).

Questa è la ragione per la quale, nello scenario immaginato dall’autore dell’Apocalisse, la moltitudine proclama che la salvezza appartiene al nostro Dio (Ap 7,9). Potremmo tradurlo anche “la santità appartiene al nostro Dio”, cioè solo lui permette di accedervi e vuole dispensare questo dono con generosità, vuole che ogni persona umana sia salvata (1 Tim 2,4). Questo è confermato da un dettaglio consolante sempre in questo passaggio dell’Apocalisse. Da una parte sembra voler fornire il numero di coloro che sono segnati con il sigillo (Ap 7,4), cioè dei santi o dei salvati, e parla di centoquarantaquattromila segnati (Ap 7,4) – una cifra che innumerevoli sette nel corso della storia del cristianesimo sono state tentate di prendere alla lettera. Ma poche righe dopo, leggiamo che Giovanni vede una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare (Ap 7,9). Capiamo allora che la cifra di centoquarantaquattromila segnati (Ap 7,4) è simbolica e che in realtà nessuno può contare il numero degli eletti. Questa conoscenza appartiene solo a Dio e il loro numero è così grande che nessuno riesce a contarlo se non colui che ha contato tutti i capelli del nostro capo e tutte le stelle del cielo.

Questo vuol dire che anche se la Scrittura evoca la possibilità di separarsi da Dio per l’eternità, ci autorizza a sperare nella salvezza universale, nel fatto cioè che Dio possa e voglia salvare tutte le persone umane. Lui solo ne conosce il numero, è una moltitudine immensa, che nessuno può contare, e ciascuno riceve le candide vesti del banchetto di nozze non grazie ad una riuscita che potrebbe in qualche modo attribuirsi, ma rendendole candide nel sangue dell’Agnello (Ap 7,14), cioè ricevendo la salvezza come un puro dono di Dio.

La descrizione della santità evangelica offerta dalla parola di Dio culmina infine nel Vangelo che per ben nove volte la qualifica usando la parola beati (Mt 5,3-11). Questo termine esprime il desiderio più profondo che anima ogni persona umana, quello di felicità, di pienezza di vita, di realizzazione personale, di riuscita. Ogni visione della santità che vi veda un rinnegamento della nostra umanità, una negazione del desiderio di felicità è contraria al Vangelo. La spiritualità cristiana ha capito questo segreto e ne ha fatto uno dei criteri più infallibili per discernere la volontà di Dio. Per capire dove Dio vuole condurci occorre interrogare il nostro desiderio più profondo, distinguendolo accuratamente dal groviglio di velleità che ci agita nella nostra vita quotidiana. A questo potremmo riferire in un certo modo la beatitudine che proclama: Beati i puri di cuore perché vedranno Dio (Mt 5,8). Possiamo interpretarlo in questo modo: “Beati coloro i quali sanno accedere al desiderio più profondo del loro cuore perché in esso discerneranno la volontà di Dio”.

Se è necessaria una certa disciplina, una certa vigilanza nella vita cristiana è proprio per diventare capaci di discernere tra le volontà, le passioni, gli stimoli esterni e spesso le tentazioni o le mode che turbano le acque del nostro cuore e ci impediscono di accedere al desiderio di Dio che è depositato nel più profondo del nostro essere. Le beatitudini di Matteo si fanno in questo l’eco di quella proclamata in apertura del libro dei Salmi: Beato l’uomo che trova la sua gioia nella meditazione della legge del Signore (Sal 1,1-2). Occorre trovare dove risiede la vera gioia, vivere la vita cristiana perché è fonte di letizia. E la sola gioia si trova nel raggiungimento di quello che desideriamo più profondamente.

Possiamo misurare la nostra apertura alla gioia evangelica a come reagiamo leggendo la pagina delle beatitudini, quando sentiamo che la felicità risiede nella povertà di spirito, nella mitezza, nella misericordia e via dicendo. Se siamo restii ad abbracciare tali disposizioni d’animo vuol dire che non le abbiamo ancora veramente capite, che non abbiamo ancora scoperto la serenità, la pienezza interiore, la libertà che esse diffondono nei cuori di chi si apre ad esse. Questo discernimento dunque dovrebbe guidarci nella celebrazione della solennità odierna: riconoscere in cosa consiste la santità vera, cessare di confonderla con eroicità e perfezione, imparare ad accoglierla nell’umile disciplina del cuore, attraverso la preghiera e la meditazione della Parola – per potere anche noi un giorno rallegrarci ed esultare, nel raggiungimento della nostra ricompensa nei cieli (Mt 5,12), Dio stesso, come ci è promesso da Paolo: allora Dio sarà tutto in tutti (1Cor 15,28).





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