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  • Writer's pictureLuigi Gioia

Dolcezza e rispetto

Uno dei segni più inconfondibili di maturità nella vita cristiana è proprio in questa accettazione consapevole e serena del mistero della libertà umana rispetto alla fede

Non è sempre facile conciliare la descrizione della missione offerta dal Vangelo di Marco (Mc 6,7-13) con la concezione che ne abbiamo oggi o, di fatto, anche con il modo nel quale è stata praticata lungo la storia del cristianesimo. Per recarsi in missione in paesi lontani occorre prendere denaro nella cintura e a nessuno verrebbe in mente di partire senza almeno qualche indumento di ricambio, soprattutto se il viaggio è lungo.

La descrizione stessa della missione ci lascia perplessi: scacciare demoni o scuotere la polvere dai propri sandali in caso di rifiuto, un gesto simbolico che manifesta biasimo se non un certo risentimento. La missione oggi si diffonde soprattutto attraverso opere caritative e di promozione sociale che manifestano la sollecitudine della Chiesa per ogni persona, credente o meno. Il Vangelo è annunciato con discrezione e rispetto, senza esprimere nessun giudizio nei confronti di chi non lo accoglie. Ed entrambe queste modalità non sono in contraddizione con il Vangelo poiché Gesù stesso ha fatto della carità la modalità principale di annuncio della buona novella quando ha dichiarato: Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri (Gv 13,35), e Pietro ha raccomandato che tutto sia fatto con dolcezza e rispetto (1Pt 3,15).

Dobbiamo dunque considerare le indicazioni di Gesù come simboliche e interrogarci sul loro significato.

Il parallelo con la prima lettura attira la nostra attenzione su un aspetto inevitabile dell’annuncio della buona novella, vale a dire la possibilità essa non sia accolta. Ad Amos è chiesto di non profetizzare più, cioè di non parlare più in nome del Signore, perché la sua predicazione minacciava la complicità tra potere religioso e potere civile espresso nella frase questo è il santuario del re ed è il tempio del regno (Am 7,13). Ai suoi discepoli, Gesù predice la possibilità del rifiuto per il fatto stesso di dar loro istruzioni su come reagire in questo caso, attraverso l’immagine diventata proverbiale dello scuotere la polvere dai propri piedi come testimonianza per loro (Mt 10,14.18) – forse una maniera di esprimere quanto rifiutando il vangelo ci si esponga alla separazione dalla comunità dei credenti.

In tutti i periodi della storia del cristianesimo si è verificato questo fenomeno: alcuni hanno creduto, altri hanno rifiutato. Certo, per secoli in Europa si è coltivata la falsa impressione che tutta la società fosse cristiana perché l'appartenenza sociale e quella religiosa si confondevano: se si era sudditi di un re cristiano, bisognava necessariamente essere battezzati e praticare la fede cristiana, che si credesse effettivamente o meno. Ma questa è appunto la confusione tra ordine civile e ordine religioso denunciata da Amos. E il Nuovo Testamento afferma chiaramente che la conversione e il battesimo non sono mai collettivi, ma richiedono una adesione totalmente libera e assolutamente personale. Nel Vangelo Gesù chiama i discepoli a seguirlo non in gruppo, ma uno ad uno. Quando il cristianesimo dipende dall’appartenenza sociale facilmente diventa solo esteriore, superficiale, se non ipocrita. Anche in società o in famiglie cristiane, l’adesione alla fede deve essere sempre libera e non bisogna lasciarsi sorprendere dal fatto che alcuni credano ed altri no, né considerare coloro che aderiscono alla fede migliori di coloro che non la accettano. Se un cristiano pensa di essere migliore di chi non crede vuol dire che non ha capito nulla del Vangelo.

In questo senso, si è colpiti dalla remissività di Amos il quale non imperversa contro chi gli intima di andare via, ma si scusa quasi della sua insistenza affermando di non poter fare altrimenti: Non ero profeta … ero un mandriano (Am 7,14). Riconosce la sua povertà, la piccolezza della propria fede, i suoi dubbi e quindi capisce chi fa fatica a credere e ad accettare l’annuncio. In questo è compagno di Maria e di Paolo che entrambi sanno di non potersi vantare di niente altro se non della loro umiltà e delle loro debolezze. Solo chi crede davvero capisce la difficoltà che comporta l’atto di fede e lungi dal deplorare chi non riesce ad accedervi, sperimenta nei suoi riguardi una affinità, una compassione ancora più profondi. Lo testimonia l’esperienza dei grandi santi. Teresa di Gesù Bambino alla fine della sua vita dichiara di provare dentro di sé cosa voglia dire essere atei e trasforma questa prova in preghiera.

Uno dei segni più inconfondibili di maturità nella vita cristiana è proprio in questa accettazione consapevole e serena del mistero della libertà umana rispetto alla fede. Generazioni di teologi hanno speculato sulle ragioni per le quali alcuni credono ed altri no, ma nessuna spiegazione ha mai raggiunto l’unanimità. Il segreto di questo mistero appartiene solo al Padre e tutto quello che ci è necessario sapere è che lui vuole che tutti siano salvati (1Tm 2,4). Non solo, ma da tutta l’eternità ha scelto e amato ogni persona umana, non collettivamente, ma individualmente: Ci ha scelti prima della creazione del mondo (Ef 1,4). La sola cosa che ci è necessario sapere è che tutto questo non è affidato al caso. La storia del mondo e di ciascuno di noi fa parte dell’unico disegno di amore della sua volontà (Ef 1,5). Un disegno certo molto più grande di noi, del quale non possiamo scrutare la profondità, ma nel quale troviamo consolazione ogni volta che ci confrontiamo non solo con l’incredulità di tanti dei nostri contemporanei ma anche con la piccolezza della nostra fede.




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