"Nel nostro mondo il potere, la gloria, il regno sembrano appartenere ai prepotenti, a coloro che approfittano della loro autorità a loro vantaggio, a coloro che spesso non hanno l’integrità morale che dovrebbe accompagnare l’esercizio di ogni responsabilità".
Sembra un controsenso che per celebrare la solennità di Gesù Cristo Re dell’universo la liturgia della Parola ci proponga una pagina del Vangelo di Giovanni nella quale Gesù è stato appena torturato, ricoperto per scherno di un mantello di porpora e di una corona di spine e umiliato in presenza di Pilato. Nel dialogo tra Pilato e Gesù traspare certo l’arroganza dell’autorità istituita, ma anche l’esitazione, la sorpresa, l’incapacità di capire chi sia Gesù e perché si esponga a un tale trattamento. E’ anche rivelata l’ambiguità di un potere, di una regalità terrena prigionieri di mille compromessi, incapaci di prendere posizione nei confronti di Gesù, di proclamarne l’innocenza evidente.
Tutta questa esitazione e questa ambiguità traspaiono nella domanda di Pilato a Gesù: Dunque tu sei il re dei Giudei? (Gv 18,33). Non è una vera domanda, ma la confessione di un senso di smarrimento che Gesù smaschera rispondendo con un’altra domanda: Tu dici questo da te stesso oppure altri ti hanno detto questo di me?(Gv 18,34) Gesù è re, ma in un modo che Pilato non può percepire. Gesù può affermare la sua regalità solo se ha di fronte qualcuno disposto ad accogliere questo regno, ad accettare la volontà del Padre, ad entrare nel suo disegno di salvezza sulla storia. Non si tratta di diventare sudditi di Gesù, ma di regnare insieme a lui, come ce lo dice la seconda lettura tratta dal libro dell’Apocalisse: Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati fa di noi dei re e dei sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli (Ap 1,5-6).
Continua quindi questa conversazione nella quale nessuna vera comunicazione è possibile perché Pilato non ha intenzione di accogliere Gesù nella propria vita, di regnare insieme a lui. Allora, alla seconda domanda di Pilato, Gesù risponde: “Ebbene, se vuoi saperlo, te lo dico esplicitamente: Non aver paura, non sono qui per rubare il tuo regno, la tua autorità. Non sono qui per attentare all’autorità dell’impero romano”, perché il mio regno non è di questo mondo (Gv 18,36).
Gesù dunque afferma di essere re, di avere un regno, proprio quando tutto sembra contraddire questa affermazione: è inerme, impotente, umiliato e sul punto di essere crocefisso e di morire. L’ironia della risposta di Pilato è dunque comprensibile: Dunque tu sei re? (Gv 18,37) Gesù risponde: Io sono re. Per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità (Gv 18,37). In questa frase afferma esplicitamente ciò che è restato implicito nella conversazione fino a questo momento: Solo chi è dalla verità, ascolta la mia voce (Gv 18,37). Solo chi si apre al dono di questa verità, solo chi la cerca autenticamente può capire ciò che io gli dico. In questo modo rivela a Pilato che non può capire in cosa consista il regno di Dio né le parole di Gesù perché non è disposto ad accoglierlo.
Questo vale per ciascuno di noi. Per poter regnare insieme con Gesù occorre accoglierlo nella nostra vita, credere in lui, ascoltarlo. Regnare con Gesù non ha nulla a che vedere con il modo nel quale i governanti di questo mondo fanno sentire la propria autorità (Mc 10,42). Nel nostro mondo il potere, la gloria, il regno sembrano appartenere ai prepotenti, a coloro che approfittano della loro autorità a loro vantaggio, a coloro che spesso non hanno l’integrità morale che dovrebbe accompagnare l’esercizio di ogni responsabilità.
Per questo Gesù afferma: Il mio regno non è di questo mondo (Gv 18,36). Non obbedisce alle leggi di questo mondo. Dice ai suoi discepoli: “Se volete essere i più grandi, se volete regnare, se volete sedere alla mia destra, fatevi i più piccoli, gli ultimi, mettetevi al servizio gli uni degli altri. Donatevi agli altri”. Il modo evangelico di regnare è quello di donarsi, di farsi gli strumenti attraverso i quali la libertà che Gesù ci porta da parte del Padre si diffonde. Regniamo donandoci e perdonando. E’ molto interessante – anche se è una semplice coincidenza senza valore semantico – che “dono” e “per-dono” corrispondano sonoramente. Il perdono è la forma più profonda e più grande di dono. Il perdono è quello che Gesù vive nel momento di più piena manifestazione della sua regalità, nella sua passione, quando rifiuta di rendere male per male con le sue ultime parole prima di morire: Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno (Lc 23,34).
Accettare il carattere misterioso di questo regno, diventare gli strumenti attraverso i quali esso si diffonde, è possibile solo se abbracciamo questa misericordia di Gesù, questo suo amore senza limiti, questo suo dono di se stesso, questo suo perdono. Ecco perché ogni volta che preghiamo il Padre Nostro diciamo: “Venga non il mio regno, ma il tuo regno. Nel mio regno certamente tutti i miei nemici sarebbero sotto i miei piedi, umiliati, eliminati. Nel tuo regno i miei nemici sono chiamati a diventare miei amici, miei fratelli, perché sono anche tuoi figli. Coloro ai quali tu hai perdonato, Signore, sono coloro ai quali anche io voglio perdonare”.
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