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  • Writer's pictureLuigi Gioia

Imparare la difficoltà


Uno dei motivi per i quali entrai in monastero quando avevo 18 anni fu che, in quella fase della mia vita, aspiravo alla semplicità, alla chiarezza, all’unità interiore. La vita secondo la Regola di San Benedetto è armoniosamente unificata per mezzo della preghiera, del lavoro e dello studio. Il proprio posto nella cappella o nel refettorio è chiaramente definito, si sa sempre cosa sta per succedere, tutto è prevedibile e il silenzio aiuta a elaborare il tutto tranquillamente. Un paradiso per gli introversi. Inizialmente questo stile di vita può sembrare ripetitivo e noioso, ma presto si scopre che un ritmo di vita così regolare consente di concentrarsi su ciò che conta davvero e quello che sembra perso o ridotto in termini di prospettive e di attività lo si guadagna in profondità nella propria relazione con altre persone, nella conoscenza di sé e nella sempre maggiore capacità di percepire il modo di agire di Dio nella propria vita. In una parola, è uno stile di vita che aiuta a rallentare per imparare ad ascoltare correttamente. "Ascolta" è la prima parola della Regola, un tema ricorrente nell'Antico Testamento, in particolare nel libro del Deuteronomio – ed è caro a Gesù il quale afferma: “Chi ha orecchi, ascolti" (Mt 13,9).

Ben presto però (nel giro di un anno) mi resi conto che la vita monastica non mi avrebbe offerto il tipo di unità, semplicità e prevedibilità che cercavo. Scoprii che se la vita benedettina semplifica alcuni aspetti della esistenza e del comportamento esteriori, è solo per consentire alla vita comunitaria e alla Parola di Dio di introdurci nel più destabilizzante di tutti gli esercizi, vale a dire la conoscenza di sé. In essa, invece della calma e del controllo di sé che spesso associamo all'immagine ideale del monaco, ci si ritrova incapaci di fuggire o di negare le complessità e le contraddizioni delle proprie motivazioni, delle proprie paure, dei propri meccanismi di difesa, di tutto ciò che c’è di irrisolto nella propria vita e nel proprio cuore. Speravo nella semplicità e invece trovai contraddizione. Desideravo ardentemente la chiarezza e invece sperimentai fino a che punto, per usare una frase di Sant'Agostino nelle Confessioni, sono un mistero per me stesso, non capisco me stesso, sono incapace di diventare trasparente anche con me stesso. Capii molto presto che il percorso della vita monastica, anzi il percorso di qualsiasi vita che cerchi di essere autentica e responsabile, consiste nell’imparare la difficoltà, nell'accettazione della complessità, nel venire a patti con l’imprevedibilità e l’incertezza.

Imparare la difficoltà: questa, mi sembra, è la lezione principale di Gesù nella parabola del seminatore e più generalmente nel capitolo tredicesimo del Vangelo di Matteo. È un passaggio molto strano. Per quale ragione Gesù ci racconta prima la storia di un seminatore e solo dopo ce ne spiega il significato? Il modo migliore per insegnare qualcosa, per comunicare un messaggio a qualcuno consiste nell’andare diritto al sodo. Chiunque abbia familiarità con i social media sa che se non si riesce a trasmettere ciò che si vuole comunicare entro 5 secondi le persone passano oltre: i nostri pollici sono rapidi e spietati! Nel nostro mondo sempre più frenetico, l'informazione o l'opinione deve essere breve, diretta, concisa - e sicuramente c'è un valore in questo.

Quindi cosa sta facendo Gesù? La risposta ci viene data quando Matteo spiega che “parlava usando parabole” (Mt 13,3) e Gesù stesso chiarisce perché ricorre a questo modo indiretto di insegnare quando afferma: “Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono” (Mt 13,13). Potremmo interpretare questa frase enigmatica in questo modo: se il nostro unico modo di comprendere la realtà o il mondo si basa su "informazioni", rischiamo di darci l'illusione di stare ascoltando e di stare capendo qualcosa solo perché siamo in grado di memorizzare queste informazioni, di verificarle, di discuterle - in una parola siamo in grado di controllarle, di assorbirle nel nostro sistema di valori. Questo ci dà una grande efficacia, ma ci rende impermeabili a tutto ciò che non può essere confezionato in questo formato, trasformato in dati agevolmente trasmissibili.

Gesù parla in parabole perché cerca di aprire i nostri occhi, le nostre menti e il nostro cuore sulla più complessa di tutte le realtà, quella che chiama il "regno di Dio" – vale a dire il modo strano, paradossale, spesso frustrante in cui Dio è presente e agisce nella storia e nelle nostre vite. L’elusività delle parabole ha lo scopo di avvertirci fin dall'inizio che il modo in cui Dio agisce non è prevedibile, che la Scrittura non è semplice, che cercare di discernere la volontà di Dio nella nostra vita è arduo. Questo vale per il modo di agire di Dio, ma è vero per la vita in generale. Più invecchiamo, più ci rendiamo conto che ci sono poche soluzioni o risoluzioni nella vita e che è meglio rassegnarci a dover affrontare difficoltà, complessità, incertezza e instabilità fino a che non esaliamo il nostro ultimo respiro. Anche se forse la rassegnazione non è l’unica maniera. Abbiamo la promessa di una saggezza nella vita che consiste nel trovare la postura giusta, per così dire – quella cioè che ci consente non solo di sopportare questa difficoltà, ma piuttosto di gioire in essa.

È questa postura che Gesù vuole che adottiamo quando dice: “Fate attenzione a come ascoltate” (Lc 8,18). Martella questo messaggio (cfr. la ripetizione della parola “ascolta” nella parabola del seminatore - 7 volte!) - sa benissimo che siamo maestri nell'arte di ascoltare solo ciò che ci fa comodo, di isolarci convenientemente da tutto ciò che potrebbe minacciare la confortevole narrativa che abbiamo tessuto per mantenere viva la nostra illusione di padronanza e di controllo, per sostenere l'immagine che vogliamo dare a noi stessi.

“Fate attenzione a come ascoltate”: questo è qualcosa che le persone che sono in prima linea nei servizi sociali, che si offrono come volontari per le linee di assistenza telefonica o lavorano con persone con difficoltà di apprendimento, faticano molto per acquisire. L'ascolto non ci viene per niente naturale: è qualcosa che dobbiamo imparare e richiede tempo e pratica.

La verità è che ascoltare non è la qualità che apprezziamo maggiormente. Viviamo in un mondo in cui il successo non dipende dall'ascolto, ma dal farsi notare e sentire. La maggior parte del nostro sistema educativo mira a affinare non le nostre capacità di ascolto, ma le nostre capacità di dibattito: assertività, loquacità, persuasività, agevolezza sociale, acume critico. Se alcune persone restano ai margini, se non riescono nella vita, se soffrono di ingiustizie, è colpa loro - avrebbero dovuto imparare a farsi sentire. Come abbiamo tragicamente visto di recente, questo genera politiche identitarie che sostanzialmente consistono nel gridare più forte agli altri, perché sfortunatamente non sembra esserci altro modo di denunciare efficacemente discriminazioni sistematiche e ingiustizie.

La triste verità, tuttavia, è che alcuni individui e alcune categorie di persone sono così compromessi e così privi di potere che non hanno nemmeno le parole per esprimere ciò che li paralizza, non sanno nemmeno semplicemente come chiedere aiuto, letteralmente non hanno voce. Una delle esperienze più comuni quando si è volontari per un servizio di assistenza telefonica è ricevere chiamate da persone che non dicono nulla per lunghi e scomodi periodi di tempo. Nessuna delle nostre "capacità di dibattito" può aiutarci in queste situazioni. L'unica cosa che aiuta è la nostra "capacità di ascolto": prendere tempo, rassicurare, dare spazio, porre domande aperte, "echeggiare" (ovvero usare lo stesso linguaggio del chiamante per mostrare che si capisce quello che dice), "riflettere" i sentimenti del chiamante, senza mai parlare di sé stessi, riassumere, non giudicare. È davvero consolante scoprire che la saggezza secolare ha trovato modi così creativi ed efficaci di mettere in pratica il Vangelo, che ha sviluppato modi così penetranti di "fare attenzione a come ascoltiamo"!

Gesù vuole che pratichiamo questa capacità di ascolto non solo nei nostri rapporti con le persone bisognose e che non hanno voce ma come stile di vita - non solo nelle nostre relazioni reciproche, ma anche con noi stessi e con Dio. Dobbiamo pensare a Dio come a una delle persone bisognose di cui ho parlato prima, non perché sia ​​impotente, ma perché si è privato del potere (Paolo dice addirittura che si è “svuotato”) nella sua relazione con noi per non imporsi mai su di noi. Crediamo in un Dio immensamente paziente, un Dio che continuerà ad aspettare fino a quando non decideremo di iniziare a prestargli attenzione.

Questo ci conduce all'altro importante verbo del Vangelo di oggi, che è "capire" (o “comprendere”). C'è chi capisce e chi non capisce. E questo dipende interamente dal modo in cui ascoltiamo.

Ancora una volta la conoscenza e la comprensione nel nostro mondo sono diventate merci che possono essere acquistate attraverso un'istruzione molto costosa per poter poi essere messe in vendita. Questo processo significa che tendiamo a chiamare "conoscenza" o "comprensione" solo ciò che può essere misurato, quantificato - qualcosa che possediamo, e che per questo motivo può essere venduto ad altri. "Capire" per noi significa avere le soluzioni che funzionano.

Il tipo di comprensione che Gesù loda nel Vangelo è molto diverso. È più simile al significato che diamo a questa parola quando diciamo a qualcuno: "Ti capisco". Se ci pensiamo, è una cosa molto strana da dire. Non significa che si hanno tutte le informazioni sull’altra persona o le soluzioni a tutti i suoi problemi. Significa solo: "Ti ho sentito", trasmette empatia e riconoscimento. Immagino che saremmo tutti d'accordo sul fatto che queste due cose - empatia e riconoscimento - sono ciò di cui abbiamo più bisogno nella vita - anche se il più delle volte non risolvono i nostri problemi (almeno non immediatamente) e non possono essere misurati o messi in vendita.

Questo tipo di comprensione è molto più impegnativo di quanto pensiamo, per una ragione molto semplice: possiamo praticarlo solo nella misura in cui siamo venuti a patti con la difficoltà, la complessità, l'ignoto.

Gesù ci avverte dell'importanza cruciale di questo tipo di ascolto e di questo tipo di comprensione perché sono l'unico modo di accogliere la giustizia del regno di Dio - l'unica maniera di adattarci al modo in cui Dio stesso si comporta con noi e vuole che ci confrontiamo gli uni con gli altri, vale a dire ascoltandoci a vicenda, comprendendoci, diffondendo generosamente empatia e riconoscimento intorno a noi.

Sogniamo illusoriamente un Dio che risolva tutti i nostri problemi, ci dia le risposte giuste, ci protegga dall'ignoto. Vogliamo che ci autorizzi conferendoci il potere di dire la verità nel suo nome, di essere giusti nel senso di fare sempre la cosa giusta, di dare alle persone che si fidano di noi la certezza che li stiamo conducendo nella direzione giusta.

Sfortunatamente, però, come 2000 anni di storia cristiana hanno ampiamente dimostrato, ciò non accadrà mai, perché non corrisponde a chi è Dio e a come agisce nella storia.

In definitiva, questa è la vera ragione per cui Gesù descrive Dio e il suo modo di trattare con noi attraverso parabole che parlano di qualcosa di cui possiamo non accorgerci, qualcosa che non ha bisogno del nostro lavoro per crescere, che può coesistere con le erbacce, cioè le contraddizioni e, soprattutto, che appare spesso dove ce lo aspettiamo di meno.

Viviamo in un mondo fondato sulla capacità di dibattito e la mercificazione della conoscenza - un mondo che ha decifrato anche le strutture più complesse come il corpo umano o la psiche umana e ha creato sistemi che ci danno il controllo, o l'illusione di controllo, e hanno aumentato il nostro benessere a livelli mai visti prima nella storia dell’umanità.

Per questo però abbiamo pagato un prezzo altissimo. Abbiamo dimenticato la capacità di ascolto, siamo sempre più incapaci di "capire" nel senso di accogliere e riconoscere ciò che non possiamo padroneggiare o di cui abbiamo paura e questo ci ha resi estranei a noi stessi, agli altri e a Dio.

Gesù suggerisce la via d'uscita in una frase di cui dovremmo fare tesoro e alla quale dovremmo costantemente ritornare, una frase che può essere stimolante e trasformante nella vita di un cristiano come di ogni persona di buona volontà, credente o meno:

“Fai attenzione a come ascolti"




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