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  • Writer's pictureLuigi Gioia

L'attesa che salva

"Desiderio e speranza tenevano Simeone ed Anna vigili, sostenevano la loro determinazione, riempivano la loro preghiera".

Non dimenticherò mai una notte dell'aprile 2002 in cui, come spesso accadeva all'epoca, arrivai a Londra da Parigi alla stazione di Waterloo, che all'epoca era ancora il terminal dell'Eurostar. Stavo tornando a Oxford dopo le vacanze di Pasqua che avevo trascorso con la mia comunità benedettina nel sud-ovest della Francia. C'era solo una breve distanza tra la stazione di Waterloo e Grosvenor Gardens, dove prendevo l'autobus per Oxford, ma dato che avevo una valigia molto ingombrante decisi di prendere un taxi. Era piuttosto tardi e quando il taxi raggiunse il fiume Tamigi e attraversò il ponte di Lambeth, potete immaginare la mia sorpresa quando vidi kilometri e kilometri di una coda ordinata e sommessa, centinaia e centinaia di persone che camminavano lentamente da qualche parte. Credo di poter essere perdonato per aver avuto bisogno di un po' di tempo prima di capire cosa stesse succedendo: avevo trascorso le 2 settimane precedenti all'estero e nel monastero in cui vivevo all'epoca non c'era radio o televisione e poco accesso ai social media. Sapevo che la Regina Madre era morta, ma non che la camera ardente fosse stata allestita nel Palazzo di Westminster e che oltre 200.000 persone stavano sfilando davanti alla sua bara. Questa scena straordinaria produsse un'impressione duratura su di me. La gente era disposta ad aspettare ore, durante la notte, nelle strade, per rendere un ultimo tributo alla tanto amata regina.

Quando qualcosa è davvero importante per qualcuno, quando colpisce profondamente, si è disposti a fare un sacrificio. Può essere arduo, ma questo non scoraggia né instristisce, anzi dà conforto, persino gioia. Queste lunghe ore di attesa non erano vuote né solitarie. Il Regno Unito quella notte non era semplicemente un paese, un popolo, ma improvvisamente mi apparve come una famiglia. C'era un'atmosfera palpabile di sereno dolore, di profonda gratitudine, di cura – uno di quei momenti che rivelano la vera anima di una nazione.

Ogni volta che sentiamo la parola sacrificio, la prima idea che ci viene in mente è la rinuncia a qualcosa, una perdita, spesso impostaci dalle circostanze esterne: la pandemia ha imposto a tutti noi sacrifici che ci eviteremmo piu che volentieri. Questo però non è il significato cristiano del sacrificio. Un sacrificio nel cristianesimo è qualcosa che voglio fare perché ci tengo, qualcosa che non sopporto ma che abbraccio – e ancora di più, spesso è qualcosa che crea o rafforza legami d'amore, collega istantaneamente persone e persino estranei tra loro e li rende una famiglia.

La forma originale di sacrificio nella Bibbia è il pasto. Ogni volta che mangiavano, gli ebrei erano consapevoli che questo atto apparentemente ordinario non poteva essere dato per scontato: avevano cibo perché Dio aveva dato loro una terra, potevano sedersi e mangiare in pace perché Dio aveva dato loro sicurezza, avevano pane e vino perché Dio aveva creato un mondo dove terra e cielo, pioggia e sole, permettevano che i raccolti producessero i loro frutti. Per questo erano lieti di offrire alcuni dei prodotti della terra in dono, o in sacrificio, a Dio. Volentieri iniziavano ogni loro pasto con il ringraziamento, che era per loro la forma fondamentale del sacrificio – come sentiamo costantemente nei Salmi: “Offrano a lui sacrifici di ringraziamento e narrino le sue opere con canti di gioia!” (Salmo 107,22).

Quando sentiamo la parola sacrificio pensiamo a perdita e disagio.

Quando gli ebrei usavano la stessa parola, ciò che veniva loro in mente era un comune e sentito senso di appartenenza e di gratitudine che li univa a Dio e gli uni con gli altri e faceva di loro un solo popolo, una comunità, un corpo.

Nel vangelo di oggi incontriamo due tra i personaggi più accattivanti dei vangeli, Simeone e Anna. Entrambi avevano passato tutta la vita ad aspettare. Di Simeone si racconta che “aspettava la consolazione d'Israele” (Lc 2,25), e di Anna che era rimasta vedova in gioventù, e che da allora, per quasi sessant'anni, aveva dedicato la sua vita al culto e non aveva mai lasciato il tempio (37). È implicito che entrambi appartenessero alla categoria di questi amati modelli di pietà biblica chiamati anawim, coloro che non confidavano nelle proprie forze ma si affidavano interamente a Dio, che mantenevano viva la speranza di Israele perché credevano fermamente che, qualsiasi fosse la lunghezza dell’attesa, Dio alla fine sarebbe intervenuto nella storia, sarebbe venuto in soccorso del suo popolo. Lo stile di vita di Simeone e Anna potrebbe sembrare un po' estremo: trascorrevano la maggior parte della loro vita nel tempio a pregare. Essi, però, non avevano abbracciato questa esistenza come una penitenza, non avrebbero pensato di aver rinunciato a nulla facendo quello che facevano. Aspettavano il Messia, questo personaggio misterioso di cui avevano parlato i profeti, che avrebbe portato conforto e libertà al popolo d'Israele. Questo desiderio e questa speranza li tenevano vigili, sostenevano la loro determinazione, riempivano la loro preghiera.

La forma assunta dal loro sacrificio era quindi l’attesa.

A volte nella nostra vita l'attesa può essere insopportabile, come quando un parente o un amico viene sottoposto a un intervento chirurgico potenzialmente pericoloso. Altre volte può sembrare priva di senso, come quando siamo bloccati nel traffico. Ma ci sono forme di attesa che ci riempiono di gioia e di speranza, come ad esempio quando i genitori aspettano un figlio. E ci sono forme di attesa che hanno un potere curativo. Qualsiasi forma di accompagnamento, ad esempio, è utile solo se l'ascoltatore sa attendere che l'altra persona si apra al proprio ritmo, non esercita pressioni, è paziente, non giudica, è capace di dare spazio e attenzione piena. L'attesa in questo caso è davvero un sacrificio, non per lo sforzo e la disciplina che richiede, ma perché è vissuto come espressione di generosità, di cura e di amore.

Questo è il sacrificio che Gesù vuole da tutti i credenti: «Seguitemi» (Mc 2,14), «Abbiate fede in me» (Gv 14,1). L'unica cosa che chiese ai suoi discepoli era che trascorressero del tempo con lui. Spesso si spazientivano e volevano agire, ma Gesù insegnava loro che dovevano imparare dall'esempio di Simeone e Anna: l'unico modo per riconoscere il modo in cui Dio agisce nella storia è una paziente, perseverante, attenta, amorosa, vigile, orante attesa.




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