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  • Writer's pictureLuigi Gioia

Mostrami le tue vie


Una delle caratteristiche più impressionanti della Reggia di Versailles in Francia o dell'Antico Palazzo Apostolico Pontificio a Roma (che oggi fa parte della Cappella Sistina), è il susseguirsi di enormi sale originariamente concepite con l'unico scopo di condurre alla sala del trono. Le delegazioni che si recavano dal papa quando era ancora a capo dello stato pontificio attraversavano la Galleria delle Mappe, poi la Galleria degli Arazzi e infine la Galleria dei Candelabri, tutte progettate per impressionarli e accrescere le loro aspettative. Più prestigioso era il monarca, più elaborata era l'etichetta che i visitatori dovevano seguire. Una volta che finalmente raggiungevano la sala del trono, la scena che li attendeva non doveva essere molto dissimile da quella descritta nella versione greca del libro di Ester, dove ci viene detto che “attraversate tutte le porte, si fermò davanti al re [Artaserse]. Egli stava seduto sul suo trono regale e rivestiva i suoi ornamenti ufficiali: era tutto splendente di oro e di pietre preziose e aveva un aspetto che incuteva paura. Alzato il viso, che la sua maestà rendeva fiammeggiante, al culmine della collera la guardò. La regina cadde a terra, in un attimo di svenimento, mutò colore e si curvò sulla testa dell’ancella che l’accompagnava” (Ester 5.1). Probabilmente, non tutti i visitatori del papa svenivano quando raggiungevano la sua presenza, ma la soggezione era d’obbligo. Da qui il dispiegamento di sale, troni, abiti, oro, pietre preziose per esaltare la maestà, cioè la grandezza ('maestà' deriva da maiusche significa 'grande') del monarca, per mostrare la sua gloria (suggerita nel libro di Ester dall'espressione “maestà fiammeggiante”).

Molte delle raffigurazioni dell'Antico Testamento di Dio lo rappresentano seduto su un trono (Sal 47,8) e risplendente di maestà (Sal 76,4). Quando il profeta Isaia descrive il suo primo incontro con Dio, anche lui usa questa immagine: vede “il Signore seduto su un trono, alto e elevato; e i lembi del suo manto riempivano il tempio ", ci sono angeli che proclamano la sua santità e la sua gloria, e il profeta teme per la sua vita perché pensa di aver visto il Signore e sa che nessuno può sopravvivere a questa esperienza (Is 6.1-5 ).

Lo sbalordimento a volte può schiacciare.

Quando Giovanni, all'inizio del suo Vangelo, dichiara che nessuno ha mai visto Dio (Gv 1,18), eprime la convinzione della maggior parte degli autori biblici: se la gloria di Artaserse era tale da far svenire Ester, quanto più la gloria di Dio sarebbe stata insostenibile per qualsiasi essere umano al punto da provocarne la morte - proprio come, per esempio, la luminosità del sole è tale che se lo guardiamo direttamente, siamo accecati.

In modo caratteristico, tuttavia, l'Antico Testamento ricostruisce questa nozione secolare di maestà e gloria quando la applica a Dio e in nessun altro passaggio questo processo può essere visto in azione più suggestivamente che nel 33° capitolo del libro dell'Esodo dove Mosè implora Dio di non abbandonare il suo popolo nonostante la sua apostasia, dopo l'episodio del vitello d'oro - e Dio accetta questa richiesta per amicizia per Mosè. È un momento di grande vicinanza tra i due e questo incoraggia Mosè a portare avanti le due domande che ardeva di chiedergli: "se ho trovato favore ai tuoi occhi, per favore mostrami ora le tue vie" (33.13) e “Per favore fammi vedere la tua gloria” che, come chiarisce il resto del brano, è sinonimo di “fammi vedere la tua faccia”, cioè “Fammi vedere chi sei veramente” (33.38.20).

E Dio, che a questo punto non può rifiutare più nulla a Mosè, per quanto misteriosamente, accede alle sue richieste. Alla domanda riguardo al suo modo di agire, Dio risponde: "Farò grazia a chi farò grazia, e mostrerò misericordia a chi mostrerò misericordia" (33.20) che conferma quanto aveva dichiarato altrove: le vie di Dio sono perdono e hesed, che vuol dire amore tenero, appassionato e affettuoso. Per quanto riguarda vedere il suo volto o la sua gloria, Dio risponde "tu non puoi vedere il mio volto, perché gli esseri umani non possono vedermi e restare vivi", ma proviamo a farlo in un altro modo:

“Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano, finché non sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere” (33.29-23). I commentatori rabbinici interpretano vedere la schiena di Dio in questo modo: possiamo percepire l’agire di Dio solo retrospettivamente, guardando indietro agli eventi della nostra vita e della storia.

Questo è il sottofondo della richiesta solo apparentemente innocente di alcuni pellegrini greci giunti a Gerusalemme per la celebrazione della Pasqua: “Vogliamo vedere Gesù” (12,21). Il resto del brano ci disorienta: Gesù sembra ignorare la richiesta e parla invece di semi, morte e soprattutto gloria: prima dichiara "È venuta l'ora che il Figlio dell'uomo sia glorificato", poi dice al Padre “Glorifica il tuo nome”, e il Padre gli risponde “Ho glorificato il mio nome e lo glorificherò di nuovo” (12.28). In che modo questo discorso sulla gloria è una risposta alla richiesta dei Greci di vedere il volto di Gesù?

Dalla risposta di Dio alla richiesta di Mosè sappiamo che vedere il volto di Dio e vedere la sua gloria sono la stessa cosa.

Allora cos'è questa "gloria"?

Nel caso di un re terreno, come abbiamo visto, la gloria è prestigio, potere, ricchezza e grandezza simboleggiati da sale, troni, vestiti, oro, pietre preziose, etichetta elaborata.

Nel caso di Dio, la gloria è il sinonimo del suo modo di comportarsi con noi. Il che significa che anche per Giovanni possiamo vedere chi è Gesù veramente solo prestando attenzione al modo in cui agisce con noi, soprattutto nella sua passione.

La parola ebraica per gloria è kabod e il suo significato principale è "peso". La gloria è il peso che le persone hanno in una comunità, il loro l'impatto sugli altri. Dare gloria significa riconoscerlo e manifestarlo con la nostra deferenza e rispetto. Questa è una metafora comune nel nostro linguaggio quotidiano: ci riferiamo a coloro che sono in grado di influenzare le persone e le loro vite dicendo che "la loro opinione ha un peso". Ciò implica che queste persone non possiedono semplicemente un potere, proveniente da una carica politica, dalla ricchezza o dalla forza. Hanno anche quella che chiamiamo "autorità", cioè non devono il loro impatto su di noi alla coercizione, ma alle loro qualità personali e relazionali.

Il potere può essere conferito per legge, per nomina o per eredità: non appena qualcuno presta giuramento come presidente degli Stati Uniti, viene investito del potere esecutivo e può agire di conseguenza. L'autorità al contrario ha bisogno di essere meritata, conquistata nel tempo, e dipende dall'autenticità di un leader, dalla sua saggezza, dalla sua capacità di stabilire un legame con le persone, dalla sua fermezza. La capacità di guidare il mondo anche per un capo di stato potente come il presidente degli Stati Uniti dipende dalla sua autorità morale. Siamo attratti verso le persone che hanno autorità e volentieri le ascoltiamo, le seguiamo, abbiamo fiducia in loro. È una gioia per noi riconoscere che la loro opinione ha un peso.

Di conseguenza, se chiediamo a qualcuno "Mostrami il tuo potere", la dimostrazione può essere fornita immediatamente: la persona in questione può farmi arrestare, o sopraffarmi fisicamente, o costringermi a fare qualcosa immediatamente. Al contrario, se chiedo a qualcuno: 'Mostrami la tua autorità (o il tuo peso, o la tua gloria)', otterrò una risposta simile a ciò che Dio disse a Mosè: ‘Mi dispiace, ma devi attendere e vedere’ - che è la stessa risposta di Gesù ai greci che vogliono vederlo: la mia gloria, la mia autorità, il mio peso, il modo in cui "attirerò tutti a me" sarà morire come un chicco di grano, perdere la mia vita, amare e perdonare fino alla fine.

In questo momento dell’anno liturgico in cui inauguriamo la celebrazione annuale della passione del Signore, non presumiamo di poterne facilmente capire il senso. Per quanto spesso ci abbiamo pensato, abbiamo meditato il racconto della passione dei Vangeli, letto i teologi che si sono misurati con questo mistero, ancora una volta ci troviamo nella stessa posizione di Mosè - cioè possiamo solo supplicare il Signore di darci un'idea delle sue vie. Anche quest'anno, proprio come i greci, venendo “ad adorare alla festa”, “desideriamo vedere Gesù”, cioè vogliamo capire come sia possibile che ancora oggi, 2000 anni dopo l'esecuzione di questo oscuro predicatore della Palestina, siamo ancora attratti da lui, siamo ancora colti da stupore per la sua gloria.

Mi pongo questa domanda abbastanza spesso, soprattutto considerando il mondo secolarizzato occidentale contemporaneo in cui l'opzione predefinita è il non credere. Come può tutta la mia vita essere così influenzata da lui? Come mai continuo a credere che la storia di come ha dato la sua vita per noi vale la pena di essere rimessa in scena ancora una volta nella nostra liturgia? Qual è il segreto di un tale peso, di un tale impatto, di una tale gloria?

La risposta che ci viene data è che non possiamo davvero comprendere questo mistero e non lo lo capiremo mai - e tuttavia non restiamo a mani vuote, ci viene data un'altra opzione: possiamo guardare indietro, alle nostre vite, alla storia del cristianesimo, e forse imparare a percepire un po’ meglio i modi in cui, per quanto lentamente, Dio davvero sta scrivendo la sua legge nei nostri cuori, davvero ci sta attirando tutti a sé.



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