Uno dei personaggi teologici più accattivanti che conosca è padre Joseph-Marie Lagrange, un frate domenicano morto nel 1938, fondatore dell'Ecole Biblique di Gerusalemme, che inaugurò il rinnovamento degli studi biblici nel cattolicesimo alla fine dell’Ottocento, pagando per questo un caro prezzo: fu censurato e messo a tacere durante la famigerata epurazione antimodernista operata durante il pontificato di Papa Pio X e, sorprendentemente, fu riabilitato verso la fine della sua vita. Sapeva perfettamente che il suo approccio scientifico alla Scrittura sarebbe stato inviso alla vecchia guardia, ma non assunse mai la parte del martire. Credeva infatti che la serietà del suo lavoro sarebbe stata alla fine riconosciuta, e con disinvoltura schivò il fervore ipocrita dei suoi avversari nella Curia romana con inalterabile affabilità e buon umore. La sua memoria era ancora molto viva nella casa domenicana di Rangueil a Tolosa, dove trascorsi il mio primo anno dei miei studi dottorali alla fine degli anni Novanta e deve essere stato lì che udii un aneddoto che da allora non ho mai dimenticato. Una fazione di studenti malintenzionati in cerca di pretesti per denunciarlo stava cercando di determinare come il P. Lagrange interpretasse l'episodio della consegna delle tavole della Legge a Mosè sul monte Sinai in Esodo 31. Continuavano a pungolarlo chiedendogli: "Allora cosa pensa che sia successo davvero lì?”. Dopo aver tentato per un po’ di eludere la domanda, il P. Lagrange avrebbe finalmente risposto: “Qualcosa è successo".
Nel corso degli anni, ho capito sempre più profondamente che questa non era una battuta ma una perla di saggezza. Essa mi è tornata in mente soprattutto ogni volta che ho avuto a che fare con il racconto dei miracoli nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli. Questi miracoli sono realmente accaduti? E se sono accaduti allora, perché non succedono più oggi. So che ci sono molti cristiani pronti a sostenere che i miracoli accadono altrettanto frequentemente oggi come si suppone siano accaduti tra i primi cristiani e non ho intenzione di contestare le loro affermazioni - anche se in oltre trent'anni di ministero non ne ho mai visti, ciò a cui potrebbero rispondere che questo è dovuto alla mia poca fede, il che è certamente vero - anche se qui mi trovo in buona compagnia, dal momento che il soprannome preferito che Gesù amava dare ai suoi discepoli era micropistoi, “micro-credenti”.
Non è forse vero che il declino attuale del cristianesimo sarebbe scongiurato se trovassimo un modo per riattivare il potere che Gesù ha dato ai suoi discepoli alla fine del Vangelo di Marco di cogliere serpenti con le loro mani e bere veleni mortali senza che ciò arrechi loro alcun male, e di imporre le mani ai malati e di guarirli (Mc 16,18)?
D’altra parte, non sono forse i miracoli un esempio eclatante di pensiero magico, tipico dei nostri bambini di quattro anni che, quando desiderano un unicorno, credono davvero che apparirà nella loro cameretta? Potremmo aver superato questa fase iniziale del nostro sviluppo psichico, ma non c’è bisogno di scavare troppo per scoprire che una parte di noi non si è mai rassegnata a rinunciare a questo atteggiamento, e se le sue forme non sono così evidenti come nell'infanzia, sono comunque inconfondibili. Non amiamo forse tutti piccoli oggetti o non eseguiamo forse tutti piccoli rituali (spesso noti solo a noi stessi) per lenire la nostra ansia, specialmente quando ci troviamo di fronte a qualcosa di sconosciuto o in attesa di un risultato che potrebbe determinare il corso della nostra vita?
Cosa ne è dunque dei miracoli? Quelli descritti nel Nuovo Testamento sono reali? Dovremmo aspettarcene ancora, anzi, dovremmo eseguirne noi stessi ai nostri giorni in modo che le persone possano credere? L'unico motivo cui non accadono più è semplicemente la nostra "micro-fede"?
Sono grato alla presunta frase di P. Lagrange perché mi ha protetto dallo scetticismo nel mio approccio ai racconti di miracoli. Quando leggo che Pietro decise di battezzare i gentili perché ebbe la visione di un grande lenzuolo pieno di ogni tipo di rettili e di uccelli calato sulla terra dai suoi quattro angoli (Atti 10.12f), so che "è successo qualcosa" per persuaderlo a fare l'inconcepibile, cioè battezzare i non ebrei, aprendo così il cristianesimo all'accoglienza potenziale dell'intera umanità. Allo stesso modo, quando leggo che durante la traversata pericolosa di un lago, i discepoli videro Gesù camminare sulle acque, di nuovo so che “accadde qualcosa” nella loro relazione con Gesù che permise loro di superare le loro paure e ad avere fiducia in lui: "Abbiate coraggio. Sono io. Non abbiate paura "(Mc 6,50).
Tuttavia, trovo altrettanto decisivo che, nonostante la facilità con cui poteva compiere ogni sorta di miracoli, Gesù rifiutò di farne uno per scendere dalla croce o quando fu sfidato a fornire una prova della sua divinità. Indipendentemente dal fatto che i miracoli siano accaduti o meno nel modo in cui sono riportati nel genere letterario dei testi che ci sono stati consegnati come Scritture divinamente ispirate, il "qualcosa che è accaduto" di sicuro è questo: il modo in cui Dio ci salva non è la magia ma la pazienza, sia nel senso etimologico di pati, quello cioè di assumere le nostre sofferenze, sia nel senso più comune di non temere i tempi lunghissimi di cui abbiamo bisogno per imparare a fidarci di lui.
Che i miracoli siano avvenuti o meno, una cosa è certa: non sono il modo in cui Dio agisce nella nostra vita, a meno che non cambiamo la nostra comprensione di cosa sia un miracolo.
Conosciamo tutti l’accattivante congegno che abbiamo ereditato dall'antico teatro greco chiamato Deus ex machina, letteralmente il "Dio che si abbassa su una gru" in un istante decisivo della trama per risolvere soprannaturalmente i nostri problemi e porre fine al dramma. Questo dispositivo caratterizza perfettamente il pensiero magico e l'interpretazione erronea del significato dei miracoli, o di "qualunque cosa sia accaduta", che la narrativa biblica presenta sotto le spoglie di miracoli. Potremmo non concordare su cosa siano i miracoli, ma penso che tutti i cristiani, siano essi inclini al letteralismo o adepti della critica biblica, sarebbero d'accordo su ciò che i miracoli non sono. Non sono Dio che si mette in mostra, che cerca di impressionarci o addirittura intimidirci; non hanno lo scopo di farci credere che la soluzione alla malattia, alla povertà, all'incredulità sia semplicemente affidata a un Dio che si cala su una gru e risolve i problemi di cui non siamo disposti ad assumere la responsabilità.
Penso anche che cristiani di ogni tipo non contesterebbero che il nostro Dio non ama le gru ma preferisce invece di gran lunga le tende. Il vangelo di Giovanni dice che egli eschenosen, "piantò la sua tenda in mezzo a noi" o, come viene spesso tradotto, "venne ad abitare in mezzo a noi" (Giovanni 1,14). Non entra ed esce in modo inaspettato e conveniente dalla nostra vita. Ha invece sempre fatto parte della sua trama, spesso inosservato, spesso silenziosamente, ma condividendone assolutamente ogni momento.
Come cristiani crediamo nei miracoli non come una forma di pensiero magico ma come l'antidoto più efficace contro di esso. E, in questo senso, i miracoli accadono continuamente.
Il miracolo è che ci scopriamo capaci di credere in un Dio inaudito. Il miracolo è che anche se non vediamo questo Dio, troviamo conforto e forza nella consapevolezza che è fedele, ci ama più di quanto amiamo noi stessi ed è pronto a perdonarci più di quanto saremo mai disposti a perdonare noi stessi. Il miracolo è che non ci affidiamo più alla magia, perché la magia diminuisce il nostro libero arbitrio e ci priva dei tesori di perseveranza e di pazienza indispensabili per una crescita autentica. Il miracolo è che, invece di fare affidamento su un immaginario Deus ex machina, preferiamo assumere le nostre responsabilità e svolgere pienamente la nostra parte nella trama, desiderosi e felici di discernere gli innumerevoli modi in cui il Padre sostiene e ispira ogni nostro passo.
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