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Writer's pictureLuigi Gioia

Ritrovare forza

Quando qualcuno è a terra o giace in un letto, aiutandolo ad alzarsi e prendendolo per mano gli comunichiamo la nostra forza, entriamo con lui in una condivisione di energia e di vita.

Dal punto di vista narrativo, la pagina del vangelo di questa domenica è inabituale. Combina infatti in un solo racconto due miracoli molto diversi tra di loro e sembra che il solo filo conduttore sia la fede dei due protagonisti, Giairo e la donna che chiameremo ‘audace’.

Ricordiamo prima di tutto che Gesù è sempre in cammino e che sta andando da qualche parte, verso Gerusalemme, verso la croce che è come la scala eretta tra terra e cielo attraverso la quale egli raggiunge la sua vera destinazione, la casa del Padre, dove ci conduce con lui. Le tappe di questo itinerario sembrano essere fortuite. Ad un certo punto gli si avvicina un padre di famiglia che gli chiede aiuto e Gesù lo segue. Occorre notare con attenzione fin dove lo segue: non solo verso la casa del capo della sinagoga, ma fin nel luogo dove giaceva la bambina appena morta: prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina (Mc 5,40). Tradizionalmente, il tempo intermediario tra la morte di Gesù in croce e la sua resurrezione è stato considerato come il periodo nel quale Gesù scende nello shèol, nel regno dei morti, per liberare coloro che erano prigionieri delle tenebre. Una bellissima icona ritrae Gesù che infrange le porte dell’inferno e prende per mano Adamo ed Eva per portarli con sé verso la casa del Padre. Marco ci presenta esattamente la stessa scena: Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava (Mc 5,41-42). La risurrezione consiste nel potersi alzare e camminare; ritornare alla vita vuol dire poter di nuovo seguire Gesù che viene per dire a ciascuno di noi come ai suoi discepoli: Vieni dietro a me (Mc 8,33; Mt 16,23).

Seguendo dunque Giairo Gesù non si lascia distogliere dal suo cammino ma accetta di avventurarsi fin negli antri e nelle segrete dove ci tengono prigionieri le nostre infermità, la nostra paura di Dio, laddove ci siamo smarriti, incapaci di ritrovare la via o anche solo di alzarci. Gesù viene a prenderci per mano e toccandoci ci comunica la sua vita, ci ristabilisce e ci fortifica. Ci guarisce non da lontano, ma condividendo la nostra sofferenza. Per creare il mondo era bastata la sua parola: Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu (Gn 1,3). Per guarirci e salvarci occorre che ci tocchi, ci prenda per mano. Quando qualcuno è a terra o giace in un letto, aiutandolo ad alzarsi e prendendolo per mano gli comunichiamo la nostra forza, entriamo con lui in una condivisione di energia e di vita.

Ritroviamo lo stesso elemento nella guarigione della donna audace. Questa volta però la condivisione di energia e di vita non sembra partire da una iniziativa di Gesù, ma dall’ardire della donna che venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata»(Mc 5,27-28). In realtà è ancora Gesù che in primo luogo decide di esporsi alla folla che gli si stringeva intorno. Se vi è il dettaglio misterioso riguardo alla forza che esce da lui senza che lo abbia deciso, il quadro resta però quello della sua compassione, della sua sunkatabasis, cioè della sua condiscendenza, del suo scendere fino a permetterci di raggiungerlo e di essere raggiunti da lui.

Sperimentiamo qualcosa di analogo ogni volta che incrociamo lo sguardo di una persona che soffre e ci lasciamo raggiungere dal suo dolore. Ci sentiamo allora ‘toccati’ dentro e anche solo nel modo in cui ricambiamo lo sguardo possiamo comunicare condivisione, comprensione, cura e ridare forza, restituire un barlume di speranza. Se ciò avviene è perché siamo disposti positivamente nei riguardi degli altri, siamo aperti.

Allo stesso modo, permettendo alla folla di stringersi intorno a lui, immergendosi in qualche modo in essa, Gesù si espone, si offre, si rende raggiungibile. Tuttavia, non basta incrociare il suo sguardo, stringersi a lui, toccarlo fisicamente. Tanti toccano Gesù, ma solo la donna audace è guarita. Il vangelo ci svela che esiste un certo modo di ‘toccare’ Dio, un modo al quale, in un certo senso, non sa e non vuole resistere. Non si può non essere sorpresi dalla esclamazione di Gesù: Chi ha toccato le mie vesti? (Mc 5,30). I discepoli giustamente gli rispondono: Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato? (Mc 5,31). Ma Gesù continua a guardare intorno per vedere colei che aveva fatto questo (Mc 5,32). E quando la donna gli si avvicina, il segreto di questo miracolo è svelato: Figlia, la tua fede ti ha salvata (Mc 5,34).

Chiamandola ‘figlia’ Gesù intende sottolineare quanto la donna audace sia stata spontaneamente capace di entrare nell’atteggiamento che Gesù è venuto ad insegnarci, quello di figli che riconoscono Dio non solo come Signore o creatore o essere supremo, ma prima di tutto come Padre. Tutto l’insegnamento di Gesù mira a farci entrare in questo atteggiamento filiale, fatto di fiducia, di affidamento, di speranza. Dio è un Padre che non sa e non vuole rifiutare nulla ai suoi figli. Ciò che ci permette di toccare Dio è questa audacia, questa libertà di figli che osano sperare tutto dal Padre loro che è nei cieli.

Il filo rosso che unisce dunque in un solo racconto questi due miracoli è questo misterioso toccare ed essere toccati da Dio: viene a cercarci per prenderci per mano o ci ispira a osare toccarlo con la nostra fiducia per ridarci la forza, rialzarci, restituirci la nostra dignità, farci vivere. Dio ha creato tutte le cose perché esistano (Sap 1,14), dice il libro della Sapienza. In Gesù, Dio ricrea tutte le cose perché ritrovino vita e rifioriscano.




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